Cosa ci comunicano le architetture? Riflessioni dell'architetto Antonio Rossetti

COSA VOGLIONO DIRE LE ARCHITETTURE CHE CI CIRCONDANO?
Quando su di un rivista od anche su questo network vediamo delle architetture, è indubbio che rimaniamo piuttosto perplessi. Non riusciamo a capire perché hanno quelle forme, in che modo hanno tenuto conto del contesto nel quale sono collocate, in genere vediamo solo l'esterno, senza comprendere come siano organizzati i loro spazi interni. In genere si taglia corto e ci diciamo: è un'architettura decostruzionista. Il pronunciare questa parola sembra rasserenarci, non nel senso che riusciamo a capire cosa ci vogliono dire queste architetture, ma al contrario, avendole giudicate decostruzioniste, è giusto che non si capisca cosa vogliano dire. Penso che oggi questa serena incomprensione non abbia più niente a che vedere con il decostruzionismo. Questo ha terminato il suo percorso intorno alla fine degli anni novanta del secolo scorso. E si può anche indicare l'accadimento che ci consente di stabilire questa data. Ma dobbiamo fare un passo indietro e cercare di comprendere quanto la filosofia decostruzionista, teorizzata da Jaques Derrida, abbia influenzato l'architettura. Non starò qui a definire minutamente il pensiero di Derrida , un pò perché è da tutti ritenuto molto opaco, e perciò ci perderemmo in un labirinto di interpretazioni, perdendo la finalità che mi propongo. Ma quello che ci interessa, anche se ridotto all'osso, è necessario che lo espliciti. Derrida ritiene le architetture un testo, intendendo per testo ogni prodotto che abbia un significante che contiene un significato. E' indubbio che ciò sia vero, ma, continua Derrida, per l'architettura il significato che questa deve esibire, costringe il significante ad assumere una certa forma. La forma, almeno nella tradizione occidentale, è stata sempre costretta da fattori non specificamente architetturali: fattori non solamente fisici e costruttivi ma che coinvolgono quelli giuridico- politici, religiosi, simbolici. Ne segue che la forma è sempre conseguenza e subordinata ai significati. Decostruire, allora, significa l'annullamento di questa gerarchia, che libererebbe la forma da tale storico ed irriducibile significato, annullamento che potrebbe ottenersi con il formalismo architettonico che conseguirebbe a questa desemantizzazione dell'architettura e, condotto al suo estremo limite, potrebbe forse in tal modo portare all'essenza dell'architettura, alla << architettura stessa>>. E quale è l'essenza dell'architettura se non lo spazio? Ma anche questo desemantizzato dai concetti di bellezza, rappresentatività ed abitabilità. Con questo Derrida non esclude che le architetture debbano essere abitabili, ma la spazialità è decisa dall'architetto secondo suoi canoni, il fruitore le abiterà "acconciandosi alla spazialità definita". Come si diceva, il pensiero di Derrida lascia molti dubbi per chi li pensa in vista del progettare, è il mezzogiorno per chi non aspettava che la totale libertà espressiva. A. Benjamin già osservava:" Una cosa è un soffermarsi filosofico sull'architettura, altro è un'architettura che dovrebbe assumere e sostenere quel pensiero filosofico". L'esempio più chiaro di quanto avesse ragione Benjamin, ce lo offre la produzione architettonica di Peter Eisenman. Laureatosi, su consiglio di Colin Davis, va per due anni in Inghilterra a studiare filosofia. Al ritorno, avendo approfondito anche le teoretiche derridiane, cerca delle architetture sulle quali sperimentare la prassi decostruzionista. Sempre Colin Davis gli suggerisce di andare in Italia, a Como, per studiare le architetture di Terragni. Eisenman resta a Como un anno e, al suo ritorno in America, inizia le sue sperimentazioni, deformando in più modi la Casa del Fascio, in modo da ottenerne nuovi spazi e nuove forme, ottenendo tracce dell'edificio di Terragni, ma in forme totalmente nuove. Ma queste nuove forme, almeno secondo la critica di Charles Jencks e Charles Norris, propugnatori del post- modernismo, non sono metafore dell'edificio originale alla luce della teoresi derridiana, ma "giochi senza il supporto di un pensiero progettante". Tra l'80 e l'86, vengono commissionate ad Eisenman sei ville, che lui numera da1 a 6. Visti i progetti, i committenti ne rifiutano quattro e vengono realizzate solo le ville 2 e 6. Queste sarebbero dovute essere case per abitarvi, ma, una volta terminate, si dimostrarono inabitabili. La 2 divenne un negozio d bambole e la 6 di sedie. Progetta poi una villa XI, che non verrà mai realizzata. Ma la verifica definitiva della possibilità di trasferire il sistema filosfico derridiano in architetture si ebbe nel 1986. Nel 1983 viene conferita a Bernard Tschumi la progettazione del Parco de la Villette. Tra le altre parti, l'architetto prevede dei giardini tematici. Per uno di questi,appunto nel 1986, invita Derrida ed Eisenman per progettare insieme uno dei giardini, progetto che verrà denominato " Chora L Work ", che sembrerebbe significhi lavoro corale, fatto insieme, ma la L maiuscola, staccata da Chora, è la chiave del progetto. Come pensiero progettante, Derrida sceglie un passo del Timeo di Platone, particolarmente oscuro, dove compaiono il "demiurgo architetto" e la Chora, cioè lo spazio in cui il mondo si iscrive. Come visualizzare questi due elementi? Per Eisenman il demiurgo architetto è lui, e la Chora sono i suoi progetti, che sono spazi nei quali si iscrive il nuovo mondo della decostruzione. La L maiuscola è proprio la pianta della sua villa XI. Per Derrida questa interpretazione è frettolosa, ed inoltre giudica non del tutto aderenti alla teoresi decostruzionista i progetti di Eisenman. In breve, i tempi di consegna del parco premevano, i due non si accordavano, ed allora Tschumi, ringraziando i due ipotizzati collaboratori, il giardino lo progettò lui. Non seguiremo le diverse teoresi progettuali di Eisenman, che cambiano, e continuano a cambiare, almeno ogni due anni. Quello che mi interessa sottolineare è che il sasso era stato gettato nello stagno del fare architettonico e che l'architettura del XXI secolo avrà ben poco in comune con quella del XX. Nel 1988 Philip Jhonson organizza al MoMA la mostra dei cosiddetti decostruzionisti. Il decostruzionismo, quello originale, studiato da pochi, ma orecchiato da molti, assunse le più svariate connotazioni, anche se presenta alcuni tratti comuni: è un'architettura fluttuante, in movimento, che intende lo spazio come risultato, che non considera la pianta come matrice dell'architettura, che non si arresta di fronte agli eccessi strutturali, che non risponde al contesto, e che, in compenso, afferma l'autonomia di immagini che sembrano non riferirsi ad altre conosciute o già viste, le forme crescono e si distorcono in modo continuo, e, fondamentalmente, non appare la nozione di linguaggio, facendoci credere che in ogni momento esso si improvvisa e s'inventa. Un'architettura, dunque, che si manifesta nella individualità più radicale ed estrema. L'architettura più recente sembra aver dimenticato la città, ed aspira a diventare essa stessa paesaggio. Paradossalmente, questo presunto amore per la natura risulta essere più dannoso per il paesaggio preesistente e per le città stesse, le quali sono più rispettose dell'ambiente di questi invadenti progetti. E' da sottolineare che queste nuove forme sono anche figlie dell'avanzamento tecnologico del disegnare. Si devono al computer le maglie distorte, le superfici insperate, la continuità degli spazi, che chiamavamo interno ed esterno. Se a questo aggiungiamo i panorami irreali dei cartoni animati, che possono diventare reali, e lo diventano, credo che non ho più nulla da aggiungere. Ma una domanda si: è solo questo che si chiede oggi al'architettura?

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