Uliano Lucas

Cinquanta anni di foto in giro per il mondo raccontate ne "La vita e nient'altro: viaggi e racconti di un fotoreporter freelance", avventura umana e professionale del noto fotoreporter Uliano Lucas, in mostra allo Spazio Arte di Sesto San Giovanni fino al 22 dicembre, nell'ambito della rassegna Bookcity 2013.

Milano, 1968. «Questa immagine mi ha reso felice, perché è da dieci anni nei libri di testo. Non c'è Milano, 1963. Stazione Centrale. «Decine di donne in nero arrivavano sui treni del Sud con pacchi e valige e aspettavano chi le veniva a prendere. Parte degli uomini, invece, scendeva queste scale e scompariva: perché lì, nei vecchi sotterranei fetidi e schifosi, c'era il posto sosta organizzato dal Ministero del Lavoro per gli emigranti che andavano a lavorare in Germania. Dove venivano sommariamente ripuliti e nutriti prima di riprendere il viaggio. Era il miracolo economico, milioni di persone sciamavano al Nord, il mondo contadino entrava in fabbrica come ingoiato da un capitalismo famelico che prendeva tutto di tutti». Lucas l'emigrazione non ha più smesso di raccontarla. Sue, nel 1969 a Mazara del Vallo, le prime foto di migranti dall'Africa, tunisini. E nel '77 pubblica con Einaudi “Emigranti in Europa”

Milano, 1971. Manifestazione dei metalmeccanici Alfa Romeo, quando ancora esisteva in Milano lo stabilimento del Portello. «All'improvviso compaiono questi ragazzi giovanissimi, studenti di scuola media, l'eskimo addosso, in mano le bandiere. Corrono per raggiungere il corteo operaio, con tutto l'entusiasmo e la forza di una nuova generazione che si affaccia». Scattata con un 135 mm. cioè un medio teleobiettivo, è una delle foto simbolo del Sessantotto: strapubblicata su libri e giornali, anni fa riprodotta a insaputa di Lucas su una tessera della Fgci, tuttora esposta persino nei centri sociali come l'Askatasuna di Torino

Etiopia, 1996. Una scuola rurale in un villaggio al confine con l'Eritrea. «Realizzai un lungo racconto in villaggi come questo. Ciò che più mi interessava era la figura del maestro. Che, guadagnando due soldi e arrivando da dieci chilometri a piedi, sotto una capanna teneva lezione a orfani e figli dei contadini. Con poche biro e qualche quaderno. E con una oralità che da noi s'è smarrita, una tradizione orale forse rimasta soltanto al Sud in rari cantastorie. Mi rammentavano, quei maestri, Sibilla Aleramo e Giovanni Cena a insegnare nell'Agro Pontino negli anni Dieci del secolo scorso. Ma in fondo la fotografia è sempre un gioco di rimandi, un accavallarsi di storie e di tempi»Mostar, 1992. Fu una guerra spietata, quella nell'ex-Jugoslavia, fatta di massacri, distruzioni e stupri etnici. Condotta nella quasi totale indifferenza dell'Occidente e anche di noi italiani che in quei luoghi andavamo in vacanza fino all'anno prima. «Fu anche una guerra maschilista, chi aveva 16 anni si metteva una divisa e cominciava a rapinare ciò che poteva. Nel quartiere musulmano della martoriata città di Mostar scorsi per caso il cartello di un ospizio. Entrai, e ciò che vidi era surreale: anziani abbandonati a se stessi vivevano in mezzo ai loro escrementi accanto a pile di materassi sudici accatastati solo per difendersi dai proiettili vaganti, lasciati quasi senza mangiare perché le poche razioni alimentari che arrivavano gli venivano rubate. Lì capii che quella era una guerra in cui il debole e il poveraccio potevano solo morire perché non servivano a nessuno. L'unica mia soddisfazione fu che, contattando i militari francesi, riuscii a far arrivare loro un po' di cibo. E a far destituire la direttrice di quell'inferno»Lisbona, 1975. Il 27 aprile, poco prima che chiudessero l'aeroporto, Uliano Lucas (che varie volte aveva già visitato, anche da clandestino, il Portogallo della dittatura di Salazar) arriva a Lisbona con Bruno Crimi del “Corriere della Sera”: collaboravano entrambi con “Jeune Afrique”, sapevano che qualcosa stava per succedere. Era la “rivoluzione dei garofani”. Si ritrovarono in Plaza del Rossío nel cuore della manifestazione di marinai, soldati e gente comune inneggiante al Movimento dei Capitani: «Entusiasmante, era un mondo che scopriva la libertà. E al grande comizio del 1° maggio con Mario Soares parlò quel personaggio discutibile ma straordinario che era Álvaro Cunhal: leader dei comunisti, appena rientrato dalla clandestinità, nessuno sapeva che volto avesse: fui io a fargli e a far conoscere le sue prime foto»Milano, 1971. Poliziotti danno l'assalto alla sede Ca' grande dell'Università Statale in via Ascanio Sforza. Il racconto che Lucas fa di quella giornata è durissimo e nient'affatto alla Pasolini del “Vi odio, cari studenti”: «In  quelle loro divise di orbace stanno lanciando candelotti nelle aule per espugnare la cittadella del sapere. Entrati dentro,hanno cominciato a bastonare, manganellare, sfasciare. Hanno rincorso gli studenti asserragliati all'interno e, sfondando una vetrata dopo l'altra, hanno trasformato il grande cortile in un improvvisato campo di concentramento. Fu uno spettacolo orribile...» Questa famosissima foto sta nel libro di Lucas “Cinque anni a Milano”, Musolini 1973. Che ha però in copertina un'altra immagine: quella del garzone di un fornaio che si ferma e saluta a pugno chiuso il funerale di Roberto Franceschi, giovane del Movimento Studentesco ucciso in uno scontro con la polizia 
Ping Yao, 2002. La nuova Cina, quella della proprietà privata, del lusso, della moda e dei nuovi ricchi, nella città a 700 chilometri da Pechino dov'era stato girato “Lanterne Rosse”. «Mi invitarono per una mostra di mie foto, insieme al collega francese Marc Riboud. Ma a farmi scoprire la Cina è stata mia figlia Tatiana, che studiava cinese a Venezia e a Pechino. Lei mi ha preso per mano e guidato in giro per il paese non solo a scattare foto ma a cercare di capire che cosa stava accadendo e come sarebbe stato il futuro»

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